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giovedì 22 ottobre 2020

Il punto della situazione e una clamorosa svolta

Ancora sul perché

Inutile nascondere che ho un momento di incertezza. Fino ad ora ho mantenuto
una certa regolarità ed ogni volta che ho pubblicato un articolo la voglia di scriverne subito un altro era tale che mi sembrava di poterne tirar fuori uno al giorno.

Eppure tutto questo tempo non ce l'ho. Se devo pensare al blog non posso pensare a disegnare, o a scrivere racconti, o a studiare storia (sono alcune delle mie passioni più grandi). E come faccio a pubblicare racconti se non ho il tempo per scriverli?

Su quale linea continuare? 

Per una mia scelta non sto condividendo i miei post neppure sul mio profilo Facebook, ho paura che se lo facessi perderei spontaneità. Saprei, nel momento stesso che sto scrivendo, che alcune determinate persone leggerebbero quello che ho scritto e finirei per non dire alcune cose,  non sarei me stesso, e cercherei di tener fede all'immagine che credo gli altri abbiano di me.

Un po' arzigogolato come pensiero ma spero si capisca.

Mi sembra anche chiaro come le visite e la condivisione di quello che scrivo sia, anche per questo, molto limitata. Mi limito ad inviare il link a qualche amico caro che mi conforta e mi spinge a continuare e poi ho cominciato a visitare e a commentare altri blog. Il che mi ha portato qualche visita e qualche complimento che ho apprezzato tantissimo.

C'è bisogno del mio blog? 

I miei quaranta lettori (di numero, non come i "venticinque lettori" del Manzoni) possono senza dubbio vivere lo stesso senza i miei articoli. 

Oggi tutti scrivono su Facebook, Instagram, Twitter, e via e via, urlando le proprie idee. Qualcuno lo fa meglio di altri, qualcun altro peggio, e spesso sono i secondi ad aver più successo. Non lo dico per fare polemica ma per dire che trovo alquanto inutile scrivere ciò che penso riguardo alle "mascherine", tanto per dirne una, o sul Mes.

Poniamo il caso che decidessi di fare una cosa del genere, e che condividessi il mio post ovunque. Molto probabilmente chi la pensa come me mi darebbe ragione, altri mi insulterebbero e nessuno cambierebbe idea. Qualcuno litigherebbe con un altro arrivando anche ad essere pesante e tutti rimarranno convinti di aver ragione. Quante volte vi siete trovati in una situazione simile? 

Ma allora a chi serve? 

Forse serve a me stesso, a chiarirmi le idee, a ragionare come sto facendo ora. Scrivere ha avuto sempre questo effetto su di me, mi aiuta a mettere ordine tra i pensieri. 

Ma questo potrei farlo anche senza pubblicare su un blog, anche scrivendo solo per me stesso. 

Allora mettiamoci anche una certa dose di narcisismo, o di presunzione, nell'idea che a qualcuno potrebbe piacere ciò che scrivi.

Magari, poi, hai anche qualcosa da dire, tra le righe, senza urlare, senza ridurre tutto al solito tifo da stadio. Forse nella tranquillità di un blog è possibile raccontare il proprio mondo, dire ciò che pensi con tranquillità.

Voglio fare questo: 

scrivere per me, pubblicare qualche mio racconto, scrivere di quel libro che mi è piaciuto, o di quella serie tv che mi ha fatto tornare a casa la sera con la voglia di vedermi un paio di puntate. 

Mostrare un disegno solo per sentirmi dire bravo, "hai fatto l'artistico?",  "hai seguito un corso?". Ma accetterei anche consigli da chi è più bravo di me, e di certo insulterei chi mi facesse critiche troppo pesanti per poi mettermi a piangere e abbandonare tutto! Un atteggiamento infantile, vero?

Voglio raccontare di me o di mio nonno, per leggere di qualcuno che si è commosso leggendo, magari ricordando il suo. O che ha riso per qualche stupidaggine che mi è uscita più o meno involontariamente. E insultando di nuovo chi dovesse esagerare nella critica, tanto lo so che è lo stesso del disegno e che di sicuro ce l'ha con me!

La clamorosa svolta

Come faccio spesso, sono partito da un punto, da una considerazione, e scrivendo sono andato a finire da un'altra parte.

Ha preso corpo un'idea che avevo in mente da un po' di tempo e ora la scrivo così non posso tornare indietro senza fare una figuraccia:

Avevo pensato di scrivere una sorta di romanzo di appendice, pubblicando una puntata alla volta, magari ogni quindici giorni.

Partendo da una idea, da un personaggio, o da una situazione, e lasciandolo andare per vedere dove va a parare. Non verrà fuori certo un capolavoro ma potrebbe essere un esercizio per me utile e divertente.

Potrei persino interagire con i quaranta lettori (ammesso che non fuggano), e creare la storia con loro.

Come dicevo prima, scrivendo l'idea sta prendendo corpo. 

Riepilogando:

Visto che dei 40 lettori uno dovrei essere io, altri dovrebbero essere capitati per caso, altri ancora avranno abbandonato alla seconda riga: i dodici che sono rimasti potrebbero scrivere nei commenti il nome di uno degli immaginari personaggi e il suo lavoro? Inventate, siate fantasiosi, o banali, non importa. Basta che scriviate un nome! E poi vediamo cosa esce fuori.

Considerazione finale

Avevo avanti due strade... sono andato per campi!

La Liggera



sabato 17 ottobre 2020

TRALUMMESCURO

BALLATA PER UN PAESE AL TRAMONTO

Tralummescuro” era dialetto, quando tutti parlavano dialetto, e lo traduci con “all’imbrunire”, ma senti che non è la stessa cosa[…] Tralummescuro è la luce, il chiarore (la lumme) che sta per diventare buio, la notte (lo scuro) e di notte, alora, era scuro davera 

Ho chiuso ieri l’ultima pagina di questo romanzo di Francesco Guccini,  Tralummescuro, ballata per un paese al tramonto 

Per me, che ho sempre amato Guccini, non è stata una sorpresa il piacere che ho provato nel leggerlo: è un romanzo che fa sorridere, che a tratti commuove, che ti trasporta in un tempo che non c’è più. Finalista dell'ultimo premio Campiello, apprezzato dalla critica e dai comuni lettori, che forse comuni non sono mai.

L’ho letto lentamente,

a piccole dosi, come se stessi ascoltando un paio di sue canzoni, non di più. Centellinandone la lettura, per far sì che non finisse troppo presto e per coglierne tutta la dolcezza malinconica, senza correre il rischio che mi stancasse. Un po’ come quando rubi due cucchiaini di nutella dalla dispensa: ci faresti il bagno, ti ci affogheresti, ma ti limiti perché sai che potrebbe farti male e poi se esageri perderebbe anche il gusto. 

Ecco quindi che, un capitolo alla volta, o anche solo poche pagine, ascolti il vecchio Francesco parlare della sua Pavana, dell’estate, degli animali, del fiume, del mulino e via andare (per usare una sua espressione).

Lo ascolti perché, almeno per me, è stato impossibile leggerlo senza sentire la sua voce ascoltata in tanti concerti, tra una canzone e l’altra. Solo un po’ più stanca, perché lo hai visto, in recenti interviste, e ti fa un po’ strano vedere come il tempo passi inesorabile.

Non ho gli anni di Guccini,

ma passavo le estati in montagna, in Abruzzo, da bambino, anni Settanta-Ottanta. Sembra passato un secolo e quasi mi spaventa pensare che quegli anni siano più vicini agli anni Cinquanta di cui si narra che al nostro Duemilaventi. 

Non è passato un secolo dalla mia “fanciullezza” ma quasi mezzo sì, cacchio! E per questo, età e ambientazione, ho sentito questo libro molto vicino, ho provato anch’io un po' di quella malinconia.

Che non è nostalgia: lo ha detto anche lui in una intervista, che a quei tempi si stava peggio, e non siamo onesti con noi stessi quando diciamo il contrario.

‘Na volta, d’inverno, be’, ti lavavi il giusto. Quando proprio cominciavi a fètere di rumadgo c’era la complessa operazione del bagno. Già dovevi cambiarti la maglia, il ché poteva essere doloroso perché la maglia di lana di peggora, fatta a mano coi ferri da solerti antenate, bucava e provocava rose (“spiura” nella città della Motta, “scadore” a Cittanova, te che sai le lingue) ed eritemi difficilmente sopportabili, verodio, dopo quel po’ che la portavi l’avevi domata ma dovevi ricominciare da zero”

Ho aperto una pagina a caso, per davvero, e ne ho copiato una parte, eppure, anche in queste poche righe c’è tutta l’atmosfera del libro : l’ironia, la nostalgia, il tono e il linguaggio. (non mi viene di chiamarlo romanzo, forse dovrei chiamarla appunto “ballata”, come suggerisce, d’altra parte, il titolo stesso)

Il dialetto

non è mai buttato lì a caso, c’è una ricerca filologica, un’attenzione all’etimologia della parola, alla sua derivazione, se più toscana o emiliana. Guccini è uno che studia e che sa come spiegarti le cose. A poche persone come a lui si addice il termine Maestro. Non a caso in appendice trovate un dizionario: "Voci del testo chiarite al popolo". Anche questo gustoso, da spulciare, redatto con la consueta ironia. Un esempio:

pinzare: pungere d'insetti. Da ragazzi per l'autore era normale essere pinzati almeno tre o quattro volte da una maledetta vrespa (vedi). Toscanismo

Note di Viaggio volume 2

In questi giorni è uscito “Note di Viaggio capitolo 2”. Una raccolta di sue canzoni scelte da Mauro Pagani e assegnate a grandi interpreti e cantautori, un omaggio a Francesco Guccini che segue a distanza di un anno il primo volume, chiamato “astutamente” (direbbe lui) Note di viaggio capitolo 1. 

Bellissime anche le interviste con i vari interpreti (Mannoia, Mahmood, Levante, Zucchero, Capossela ecc), andatele a vedere se ve le siete perse.

Insomma, ho riascoltato per caso “Culodritto”, reinterpretata da Levante, e ad un tratto penso di aver capito il tipo di sentimento che pervade “Tralummescuro”: non una nostalgia per i tempi andati, non un semplicistico "si stava meglio quando si stava peggio", piuttosto, semplicemente, il ricordo di una società che non c'è più e soprattutto di un'età, quella dei bambini che hanno "tutto ancora da sbagliare".

Leggete il testo della canzone

“Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti

e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti,

ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare

e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare...” 


C'è da aggiungere altro?

Voi lo avete già letto? o vi ho fatto passare la voglia?

Liggera


domenica 11 ottobre 2020

Il mio nome

La Liggera era mio nonno

quindi in realtà io sono "ju nipote 'e la Liggera". Così mi dicevano le "vecchie" del paese di mia madre, quando passavo lì quasi tutta l'estate. Forse sarebbe più carino chiamarle "anziane signore" ma per l'epoca e il luogo non renderebbe proprio il senso.

Io me le ricordo tutte un po' come la nonna di Peter, in Heidi, queste "vecchie": lo scialle sulle spalle e le calze corte di lana, anche d'estate. Mio fratello diceva che avevano così tanti peli sulla faccia che sembrava avessero la barba. L'elemento distintivo tra i due sessi erano, quindi, i baffi: se avevano anche quelli erano... donne, ovvio, perché gli uomini almeno si radevano. 

Mi chiamavano, io mi avvicinavo e loro domandavano: "A chi sci ju fiju?" Mi avevano fatto talmente tante volte quella domanda che anche da piccolo conoscevo la risposta corretta: "Sono il figlio di Teresa, la sorella di Ninetta". 

Potevo averglielo detto il giorno prima ma loro immancabilmente sembravano meravigliate, si aprivano in un sorriso ed esclamavano: "Ma allora tu sci ju nipote 'e La Liggera!"

Quando ero più piccolino,

pensavo che La Liggera fosse mia nonna, e che forse volevano, in quel modo, prenderla in giro per il suo peso eccessivo. Poi mia madre mi spiegò che non si trattava di lei ma di mio nonno e che non si riferivano al peso ma ad uno stato dell'anima: mio nonno lo chiamavano così perché prendeva la vita con leggerezza. 

Ora, farlo in situazioni normali già non è semplice, farlo durante la guerra tra un bombardamento e una imboscata, deve essere una cosa talmente incredibile che ti fa guadagnare la stima e l'ammirazione di chi ti sta intorno. Almeno così era accaduto a mio nonno. 

Le "anziane e barbute signore" sembrava avessero ancora gli occhi innamorati quando ti raccontavano che dopo aver sentito un colpo di fucile in lontananza più forte degli altri, subito pensavano alla Liggera, che dopo qualche minuto rientrava in paese con un paio di lepri. Quando cacciare significava mangiare.

Se oggi sono fatto così,

non dico bene o male, lo devo senz'altro a mio padre e mia madre. Per conto mio li ringrazio con tutto il cuore e so di non averlo fatto mai di persona, e non credo leggeranno mai questo articoletto. Tuttavia, un paio di cose sento proprio di averle prese da mio nonno: questa leggerezza di fondo che accompagna tutta la mia vita, e la capacità di non lamentarmi mai.

Quando ero piccolo ero "molto" piccolo: un trenta per cento in meno dei miei compagni, diciamo che ero in saldo. Era facile, quindi, per i miei coetanei prendere il sopravvento su di me. Oggi chiameremmo "bullismo" l'atteggiamento che alcuni avevano nei miei confronti. Nonno mi disse, con molta naturalezza: "Se reve' a piagne t'engu l'are".

Se ritorni a piangere ti do l’altre!

Mi sembra abbastanza chiaro no? 

Avrò avuto forse otto anni quando mi ha detto questa cosa ma per qualche ragione mi è rimasta attaccata e ha segnato la mia vita. 

Intanto gli anni passavano

e io e mio nonno partivamo l'estate per tornare, io e lui, soli, al suo paese. Io avevo diciotto, venti anni, lui quasi ottanta. Ci sedevamo fuori sotto il portico, dopo mangiato. Io, spingendo con i piedi sul muretto di pietra, mi dondolavo sulla sedia, lui la cavalcava, con le braccia conserte sulla spalliera a sostenere il mento. Nonno fumava la pipa, io una "Lucky Strike", che era sempre lui a comprare, ne aveva un armadio pieno. E tra le nuvole di fumo mi raccontava.

Della guerra, dei partigiani, e poi di quando andava a caccia col suo cane che si chiamava Febo, e ti sorprende questo nome preso dalla mitologia, ma ancora di più ti sorprendi ricordando che citava alcuni passi dell'Orlando furioso a memoria, lui che forse sapeva scrivere solo il suo nome. 

E poi parlava di quando "faceva l'amore" con nonna, o del suo vecchio amico e compare morto durante l'ultimo inverno. Ne parlava sempre a suo modo, ricordando imprese comuni, e se gli chiedevi com'era morto ti rispondeva: "Pe' mancanza de fiatu".

Ti raccontava di quando lavorava nelle gallerie che oggi attraversano gli appennini e faceva esplodere le cariche di dinamite, o delle bravate fatte per punire qualche prepotente. Lo so che nel ricordo tutto diventa un romanzo e i protagonisti della storia diventano eroi o cattivi, ma non ci vedo niente di male in questo. La Liggera era, ed è, il mio Eroe Perfetto!

Poi un inverno se n'è andato anche lui. 

Per mancanza di fiato. 

Poco tempo dopo, in un cassetto della casa del paese, ritrovai l'apribottiglie della foto. Era quello che io e lui usavamo in quelle estati. Lo presi deciso ad usarlo come portachiavi.

All'epoca stavo cercando casa. Sapete come si chiama il paese dell'Abruzzo in cui oggi riposa mio nonno? Cese. Sapete dove trovai casa io? Via Le Cese.   


La Liggera

Nona puntata

     La nona puntata è arrivata. Continuiamo a studiare a leggere e a scrivere. Stephen King ha scritto da qualche parte che se scrivi un...