A far infuriare Margherita non era tanto il suono del cellulare, uno di quei simpatici motivetti che quando imposti per la prima volta la sveglia pensi: “sì, metto questo che è carino”, e che dopo pochi giorni odi con tutta te stessa. A farla infuriare era la maledetta vibrazione, quel rumore sordo di sottofondo, insistente, che ti immagini che il cellulare cammini sul comodino e, temendo cada a terra, sei costretta ad aprire gli occhi e a spegnere la sveglia.
Spegnerla? Posticiparla! Così gli occhi puoi richiuderli altri
cinque minuti.
Alla terza aveva riacquistato abbastanza lucidità da
ricordarsi che doveva anticipare di un ora il suo turno. Si alzò velocemente e
si tuffò nel bagno.
Le girava un po’ la testa, non avrebbe saputo dire se per il
vino della sera prima o per essersi alzata troppo velocemente dal letto.
Qualche volta le accadeva e allora doveva fare i conti con la sua età. A volte
dimenticava di aver superato i cinquanta. Si guardò allo specchio, non era male,
tutto sommato, un po’ appesantita forse. Si lisciò un fianco pensando che
doveva assolutamente buttare giù qualche chilo. Dopo la doccia tornò in camera
e di nuovo davanti allo specchio tolse l’asciugamano e lo gettò sul letto.
“Sono ingrassata vero? Guarda i fianchi, e la pancia. Oggi
non mangio, giuro”.
“Non ce la farò a stare lì alle sei, Kmer va a prendere un
suo parente che è arrivato dall’Egitto, se non ho capito male deve avere più o
meno l’età di Andrea.”
Prese dal cassetto un paio di mutandine pulite e poi si mise
a rovistare tra i vestiti lanciati sulla sedia la sera prima a caccia del
reggiseno.
“Lo so, c’è disordine, oggi pomeriggio riordino tutto
promesso! Sempre se faccio in tempo perché ho promesso ad Andrea di andare a
riprenderlo a scuola e fare un giro prima di tornare a Borgovecchio.”
Finì di abbottonare la camicetta poi prese la foto di
Daniele sul comò e le diede un bacio.
“Ciao amore, a dopo”.
Ripose con delicatezza la foto e si mise a raddrizzare i piccoli
oggetti che ormai da quindici anni erano lì, come lasciati distrattamente la
sera prima, in attesa di essere ripresi al mattino: l’orologio, un
portadocumenti, una foto di Andrea di quando aveva pochi mesi, e le loro fedi.
Margherita aveva ormai superato il tempo in cui cercava di giudicarsi, il tempo in cui si vergognava di sé
stessa trovando tutto così melodrammatico, quasi da sfiorare il ridicolo. Era
passato il tempo in cui si nascondeva anche da Andrea, che tante volte l’aveva
ascoltata e le aveva chiesto con chi parlasse. In qualche parte, nella sua
testa, sapeva che Daniele non c’era più da tanto tempo ormai, e più che ad un fantasma le sembrava di rivolgersi ad un amico immaginario, come accade a tanti bambini. Anzi, poiché in realtà lei aveva sempre
pensato che tali amici esistessero solo nei film o nei libri, si era ricreduta proprio
quando aveva cominciato a parlare con il ricordo di Daniele. Ecco cos’era:
soltanto un amico immaginario, non fosse stato per Andrea che ormai a diciassette anni
gli somigliava in modo imbarazzante e per il ricordo straziante, che a volte l'assaliva, di quell’ultimo
bacio distratto che le aveva dato prima di uscire di casa per l’ultima volta.
“Mamma stai uscendo?”
“Andrea, tu sei già sveglio? Bravo. Sì, devo essere al forno
alle sei, corro. Guarda se c’è il latte in frigo e mi raccomando fai colazione prima
di uscire”
Si salutarono poi lei si fermò un istante a
guardarlo mentre spariva in cucina, si infilò un cappotto e scese in strada.
Mise in moto la vecchia auto che partì dopo un paio di
tentativi e calcolò mentalmente se non avesse fatto prima a piedi, considerando
il tempo perso per partire e quello che avrebbe perso per parcheggiare, ma non
era certo il tipo da mettersi a correre per quasi un chilometro alle sei del
mattino. Borgovecchio si svegliava in quell’istante. Qualche luce accesa alla
finestra, una donna già affacciata a stendere una tovaglia, e due ragazzi con
lo zaino ad attendere il primo autobus per la città.
Kmer, appena la vide entrare, cominciò immediatamente a
slacciarsi il grembiule.
“Oh! Meno male che la signorina si è ricordata, almeno mio
cusgino non viene rapito alla stazione e non rischia che qualche
immigrato gli rubi la valisgia”.
“Cretino, sbrigati ad andare, ché se fai tardi poi dici che
la colpa è la mia.”
Margherita infilò un largo grembiule bianco e si mise subito
al lavoro, Kmer appese il suo ad un gancio e scappò di corsa. Lei sparì per un
momento dalla porta che collegava la vendita al laboratorio e accese la radio
dietro la cassa, il forte odore del pane appena sfornato le aveva fatto passare
anche quel leggero senso di pesantezza che aveva in testa e cominciò a lavorare
con la consueta energia.
Come accadeva ogni mattina il suo arrivo segnava la
fine della notte e l’inizio del nuovo giorno. Chiese indicazioni con la sua
voce squillante, e cominciò a fare avanti e indietro per riempire gli scaffali.
Alberto le chiese come fosse andata la
serata.
“Lo rivedo domenica sera”, rispose lei, cosciente del fatto
che lui avrebbe capito cosa significasse quella risposta: il lunedì è il giorno
di chiusura del forno, quindi nessun limite di tempo ne’ di altro genere.
Gli raccontò brevemente la serata, gridando quando spariva
dietro la porta: non era stata certo delle più esaltanti. Lui era un tipo
simpatico, atletico, neanche troppo stupido. Alberto le chiese se pensasse di
farla durare un po’ di più dei soliti due o tre mesi, ma già dal racconto aveva
capito che non sarebbe andata così.
“Prima o poi lo trovo quello giusto, ne sono sicura.” Le
disse lei con l’aria di non crederci troppo.
Alberto la guardò di traverso, trascinando delle grosse
ceste vicino alla porta, pronte per essere caricate sul furgoncino.
“Margherita, lo sappiamo come andrà a finire vero? Che
quando Andrea se ne andrà riempirai la casa di gatti!”
Lei rise di gusto, non era la prima volta che Alberto le
faceva battute di quel genere ma sapeva che un fondo di verità c’era.
Non per i gatti magari, ma per la possibilità non troppo remota che prima o poi
sarebbe rimasta sola.
“Ascoltami, se proprio non dovessi trovare nessun altro mi
sposo con te, che ne dici?”
“Nonostante io apprezzi questa bellissima e per niente
offensiva dichiarazione di amore, sappi che sei troppo vecchia per me.”
“Vaffanculo”
Accese tutte le luci nel negozio, ormai era l’ora di aprire.
Alberto uscì in strada e tirò su le due saracinesche, quindi partì per il
solito breve giro di consegne. Margherita,
che per un’oretta sarebbe stata da sola con i primi clienti della giornata, si
diede una sistemata al grembiule e aprì la porta a vetri che dava sulla piccola
piazza.
Le prime anziane clienti cominciarono ad arrivare, sempre le
stesse, in quell’ora del mattino, e che compravano sempre le stesse cose. Poi,
tra una cliente e l’altra si rese conto di non aver preso neanche un caffè. Di
solito a quell’ora Kmer attraversava la piazza, entrava da Cesare e tornava con
un bel cappuccino schiumoso, oggi avrebbe dovuto attendere almeno l’arrivo di Valeria
alle otto.
Guardò l'ora e se ne pentì, perché adesso il tempo sembrava non
passare più, e fu soltanto per questo che la vista di Domenico non le fece alzare
gli occhi al cielo come accadeva di solito.
Lui, quasi a scusarsi per l’insolito orario, le aveva detto
un cauto buongiorno e si era affrettato ad aggiungere che doveva andare in
tribunale per una faccenda di lavoro.
“Volevo soltanto prendere un po’ di pizza, sai se dovessi
tardare… per pranzo.”
Lei lo guardò mostrandosi dispiaciuta
“Quindi vai di corsa? Perché avevo così voglia di prendere
un cappuccino ma sono sola”
“No, ho tempo, te lo vado a prendere io” disse Domenico illuminandosi
“aspetta, i soldi.”
“ma sei matta?” Disse lui già sulla porta.
Margherita si sentì in colpa ma poi pensò che in fondo quella
cosa lo avrebbe fatto sentire felice, almeno per qualche giorno. Ripensando a
quello che le aveva detto Alberto poco prima provò a chiedersi, per un attimo, se
Domenico potesse essere quello giusto, magari non subito. Poi le venne da
ridere pensando che avrebbe preferito i gatti e si sentì di nuovo cattiva e
senza cuore. Ma intanto un’altra cliente era entrata.
“Buongiorno signora Giudicissi, il solito sciapo?”
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