“Bianca, bianca… bianca… verde.
Bianca… uno… due bianche. Bianca! E sono dieci. Sì. Lo sapevo!”
Alberto guardò di sottecchi il
ragazzo moro che esultava silenziosamente. Aveva stretto le labbra e il pugno
in segno di vittoria, ma soltanto un attimo, poi si era guardato intorno come
per vedere se qualcuno lo stesse osservando e avevano incrociato gli sguardi. Il moro aveva sorriso e scosso un po’ la
testa, con aria un po’ imbarazzata. Alberto aveva sorriso a sua volta, più per
educazione che per altro. Poi avevano fatto finta di niente per qualche minuto.
Il moro era tornato a guardare dalla finestra e a mormorare qualcosa, lui era
tornato a leggere i suoi fogli. Alla fine, il ragazzo moro si era avvicinato.
“Nervoso eh?”
“Abbastanza.”
“Cosa porti?” chiese indicando
con un cenno del viso i fogli
“Checov”
“Pirandello.”
Annuì in silenzio sperando di
scoraggiare una conversazione, il moro parve non accorgersene.
“Comunque io sono Edoardo.”
“Alberto.”
“Sono nervoso anch’io, non
credere, forse è per questo che mi prende a parlare. Se ti do fastidio dimmelo
pure che smetto subito eh!”
“No, è soltanto che stavo
ripassando…”
“Hai ragione, hai ragione, scusami. Io non ripasso mai prima, ho dei trucchi
miei che mi aiutano”
Alberto tornò ad immergersi nei
suoi fogli, Edoardo provò a rimanere in silenzio ma non durò un minuto.
“Tipo, hai visto prima che
esultavo? Era per il gioco delle macchine bianche”
Alberto lasciò di nuovo i suoi
fogli, non c’era modo di concentrarsi e poi lo sapeva anche lui che ripassare a
pochi minuti dal provino era inutile. Guardò quello strano ragazzo sospirando,
con un leggero sorriso, e domandò:
“E cosa sarebbe questo gioco
delle macchine bianche?”
“Allora: io conto le macchine
che passano, se conto prima dieci macchine bianche il provino va bene, se ne
conto prima dieci verdi va male.”
“Ma non mi pare ci siano molte
macchine verdi in giro”
“Il trucco sta lì. Vinco sempre
e quindi entro con la certezza che andrà bene!”
Alberto annuì, perplesso, quel
ragazzo non ci stava molto con la testa, era evidente.
“E’ il primo anno che provi ad
entrare in accademia?”
Alberto rispose di sì con la
testa
“Per me è il terzo, però sento
che quest’anno sarà quello buono”
“Accidenti, il terzo anno.” Lo
disse piano, più a sé stesso che all’altro. Si guardò intorno. Che possibilità
aveva di entrare nell’accademia di teatro più prestigiosa? Ad un tratto si
sentiva fuori luogo, inadeguato. Gli altri sembravano essere nel loro elemento,
si muovevano con sicurezza, scherzavano tra loro. Due ragazzi parlavano di corsi
e di insegnanti che, dal tono con cui ne pronunciavano il nome e da come
annuivano dovevano essere senz’altro notissimi, eppure, a lui erano del tutto
sconosciuti.
“Adesso non fare quella faccia,
sono io che non ce l’ho fatta gli anni passati, mica tu!”
“Hai ragione, scusami ma, sai, a
volte penso di non essere nel posto giusto.”
“Non ti piace recitare?”
“No, certo che mi piace ma forse
non sono così bravo e sicuramente non ho la tua determinazione. Mi ero
ripromesso di non pensarci fino al provino ma da domani comincerò a pensare ad
una facoltà”
“Ho capito, sei uno da due
costante.”
Alberto guardò Edoardo con aria
interrogativa.
“No, scusami, non era un voto”
corresse Edoardo. “parlavo del grado di felicità”.
Doveva essere una cosa tipo
quella delle macchine bianche allora.
In quell’esatto momento una
porta si aprì, il primo dei ragazzi che era stato chiamato a sostenere il
provino uscì dalla stanza e subito gli altri lo circondarono e cominciarono a
domandare. Quanti sono? Com’è andata? Che ti hanno detto?
Poi la porta si aprì di nuovo, un
esaminatore chiamò un altro nome e allontanò il gruppetto lì davanti. Una
ragazza rispose ed entrò nella stanza, la porta si richiuse, tornò la calma.
“Cos’è questa cosa del grado di
felicità?”
“Allora: immagina di misurare la
felicità da zero a dieci. Alcuni per paura di una delusione, quando devono fare
qualcosa, pensano sempre che andrà male. In pratica la loro felicità, rispetto
a questa cosa, ha sempre il valore di due.”
Alberto sorrise, si, per lui in
effetti era un po’ così. Edoardo continuò:
“Se poi effettivamente andrà
male non subiranno scosse e la loro felicità rimarrà sul 2, anzi, può darsi
anche che salga a quattro per l’inutile soddisfazione di averlo già previsto. E
quattro è comunque un voto di merda, sia chiaro.”
Alberto avrebbe voluto ribattere
qualcosa ma il discorso, tutto sommato, filava.
“Io invece sono un ottimista,
penso sempre che andrà alla grande! Il mio livello di felicità è sempre alto,
diciamo intorno all’otto. Se poi effettivamente andrà bene salirà a dieci, e se
andrà male pazienza, quel giorno scenderà a due ma nel totale avrò comunque
totalizzato maggiore felicità! Mi sembra chiaro no?”
“Per essere chiaro è chiaro, ma,
a parte che non decido io di essere così, non è paura di una delusione la mia.
Sono soltanto realista”
“Questo è quello che dicono
tutti i pessimisti. Mi dispiace per voi”
Tornò il silenzio, Alberto ora si
sentiva irritato dalla superficialità della discussione. Le cose erano più
complicate di così.
Cercò di concentrarsi di nuovo
sui suoi fogli e gli tornò alla mente la domanda che il ragazzo gli aveva posto
qualche secondo prima: non ti piace recitare?
Certo che gli piaceva recitare,
amava recitare. Il solo pensarsi su un palco lo faceva stare bene. Ci aveva
messo un po’ a capirne la ragione profonda, ma la sensazione di libertà che
aveva provato sin da subito era qualcosa che non aveva mai provato prima. Ecco
cosa significava per lui recitare, significava essere libero. Libero dalle
convenzioni, dai ruoli che la società, la famiglia, la scuola gli imponevano
ogni giorno.
Ripensò alla prima volta che era
salito su un palco. Era la lezione di prova di un corso di recitazione in cui si
era ritrovato quasi per caso. Ricordava, in particolare, un esercizio che in
quel momento gli parve stupido, ma proprio in quell’occasione si ripromise che su
quelle tavole non si sarebbe giudicato, non si sarebbe posto dei limiti. Che lo
facessero gli altri, non gli sarebbe importato perché una volta sul palco non
sarebbe più stato lui.
Così era arrivato al cosiddetto
saggio di fine corso, una vera e propria commedia in realtà. In un teatro vero,
anche se piccolo e un po’ sgangherato, con un pubblico vero.
Dalla mattina l’agitazione lo
aveva travolto, tanto da togliergli anche l’appetito, non aveva mangiato nulla
per tutto il giorno. Poi nel pomeriggio era arrivato in teatro.
L’ansia e la tensione erano
diminuiti ad ogni pezzo di abito di scena indossato, ad ogni tratto di trucco,
e quando, per ultimo, aveva infilato quegli occhiali privi di lenti erano
sparite del tutto.
Il resto del tempo era trascorso
come in un sogno, fino a quegli applausi finali, quando, mano nella mano con i
suoi compagni, si era inchinato per tre volte, quasi commuovendosi. E aveva
deciso che quello era ciò che avrebbe voluto fare nella vita.
Si guardò ancora intorno, chi lo
aveva detto che quello non era il suo elemento? Stava forse rinunciando a quel
desiderio di sentirsi libero?
Passarono i minuti, venne il
momento anche di Edoardo. Quello strano ragazzo che evidentemente non aveva
paura di essere giudicato neanche al di fuori del palco, ed esponeva le sue
assurde teorie a chiunque gli si trovasse a tiro.
“Tocca a me, batti cinque” gli
disse
Alberto stavolta lo assecondò
con più convinzione. Edoardo entrò nella stanza dell’esame e la porta si
richiuse alle sue spalle.
Tornò al suo copione.
Un respiro profondo.
Non aveva bisogno di ripassare, posò
i fogli e si rilassò. Rimase un po’ con gli occhi chiusi, quindi si avvicinò
alla finestra a guardare fuori. Si sorprese a contare le auto bianche e verdi e
sorrise tra sé, ripensando a quello strano ragazzo. Passarono alcuni minuti poi
la porta si aprì.
Edoardo uscì e si liberò del
solito gruppetto che stazionava appena fuori la porta. Sembrava raggiante,
raggiunse Alberto.
“Non ti dico nulla per non
distrarti ma secondo me è andata benissimo. E vedrai che tu andrai ancora
meglio!”
“Non vedo la ragione per cui tu
debba arrivare a queste conclusioni ma ti ringrazio per il sostegno. Non mi hai
mai visto recitare, e se fossi negato?”
“Naaa, non saresti qui oggi. Mi
dai fiducia e non ti atteggi. Vedi quello lì con quell’aria seria?”
Alberto guardò nella direzione indicata
dallo sguardo di Edoardo
“Guarda come si muove, si sente
un dio sceso in terra. Quelli così sono i peggiori, fidati”
Era uno di quelli che Alberto aveva sentito parlare di corsi e di stage, una
delle cose che lo avevano messo in agitazione. Ora lo rivide con un occhio
diverso e dovette ammettere di trovarsi d’accordo con il matto, ormai era così
che lo aveva etichettato.
E non se ne andava. Il matto.
“Tranquillo, adesso ti lascio in
pace. Mi metto lì buono buono e non ti rompo fino a quando non hai fatto.”
“Ma non devi andare?”
“E ché non ti aspetto? Scherzi?
Se me ne vado ripiombi sul due fisso. Mentre ora già ti vedo che stai sul sei o
addirittura sul sette”
Ancora quella cosa della
felicità. Eppure, aveva ragione, si sentiva meglio. Aveva ancora quella giusta
tensione, quell’ansia che lo agitava, ma la speranza, che pochi minuti prima era
tornata ed ora aveva la meglio su tutti gli altri sentimenti negativi.
La porta si riaprì e si richiuse
altre volte. Poi finalmente venne il suo turno.
Un’ora dopo erano seduti al tavolo
di un bar, mangiavano un tramezzino.
“Quindi ora dovremo aspettare una decina di
giorni per sapere com’è andata?” chiese Alberto.
“Per essere andata è andata
bene, quello lo sai già. Per sapere se ci hanno preso, invece, bisogna
aspettare, sì.”
C’era il sole, Alberto chiuse
gli occhi per sentirne tutto il calore. Si sentiva svuotato. Soltanto ora si
rendeva conto di quanto fosse stato teso per questo provino. Ed era soltanto la
prima fase.
“Ma tanto non lo passo
sicuramente”
“E rieccolo! Due fisso. Io
invece dico che ci rivediamo qui per la seconda prova tra due settimane, quindi
preparati bene, hai già trovato una spalla?”
La seconda prova consisteva in una
prova di dialogo, Alberto aveva pensato già a cosa portare ma non aveva ancora
chiesto a nessuno di aiutarlo. Aveva in mente la persona a cui chiedere ma
c’era sempre la possibilità che non avesse accettato, che non se la fosse
sentita. Si vergognò e decise di mentire.
“Certo.”
“Non è vero.”
“No”
“Lo sapevo.”
Alberto provò a giustificarsi,
ma poi rinunciò. Il sentirsi così scoperto lo stava irritando.
“Senti, non è facile come tu
pretendi che sia.”
“Non ho mai detto che sia facile,
e non ti arrabbiare. Anzi scusami.”
“No, figurati non c’è niente da scusare”
Continuarono a mangiare in
silenzio poi Alberto disse
“Vorrei essere come te, a volte.”
“Cioè un idiota?”
Risero.
“Sai,” disse Edoardo, “io penso
sempre che l’isola non c’è”
“Un’altra delle tue stramberie?
Sentiamo!”
“L’isola non c’è, non è
importante che ci sia, l’importante è sognarla”
Alberto non sembrava aver
capito.
“Conoscerai l’isola che non c’è,
la canzone! Seconda stella a destra, poi dritto fino al mattino e poi la strada
la trovi da te”
“Si, la conosco”
“Beh, l’isola non c’è, è una
utopia, ma è proprio per cercare l’isola che continuiamo a camminare. Io mi
concentro sulla strada. Tutto lì”
Finirono di mangiare. Si
alzarono e fecero qualche passo insieme. Venne il momento dei saluti.
Edoardo lo abbracciò forte, poi
gli disse
“Ci vediamo qui tra quindici
giorni”
Alberto sorrise
“E preparati bene per il dialogo.
Mi raccomando!”
Lo vide andare via, lo seguì con
lo sguardo per un po’.
Poi nella testa risuonarono gli
ultimi versi della canzone
“Non darti per vinto perché
Chi ci ha già rinunciato
E ti ride alle spalle
Forse è ancora più pazzo di te”
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