Barra di navigazione

domenica 1 novembre 2020

Positivo e asintomatico

Un esperienza da raccontare     


Mercoledì pomeriggio ho cominciato ad avere forti dolori dovuti, come ho poi scoperto, ad un piccolo calcolo. La sera erano diventati talmente forti che sono dovuto andare al Pronto Soccorso.

Il Pronto soccorso del Sant'Andrea, 

come suppongo gli altri, è stato diviso in due aree: una per chi ha sintomi da covid ed una per il resto. Ultimamente in questa seconda area ci sono poche persone: difficilmente si presentano per sintomi lievi e i pochi che si rivolgono al Pronto Soccorso hanno tutti problemi abbastanza seri. 

Mi hanno subito accolto, fatto gli esami necessari, dato un antidolorifico eccetera eccetera. Dagli esami ho scoperto di avere una brutta infezione in corso e quindi mi hanno trattenuto.

Una notte al Pronto Soccorso 

non è la cosa migliore che ti possa capitare eppure, avendo il tempo di guardare e di riflettere, se ne può trarre qualcosa di buono. 

Sono convinto che sono gli occhi di chi guarda a fare la differenza e mi rendo conto che queste sono state solo le mie impressioni, ma in quel posto non si può negare che ci sia qualcosa di meraviglioso. 

C'è un infermiere che scherza e strappa sorrisi, ce n'è una affettuosa e gentile che chiama tutti "tesoro" e "amore", c'è anche quella un po' più brusca e pratica che sembra avere come priorità l'efficienza. Insomma ci sono persone con il loro carattere e la loro umanità che hanno scelto un lavoro indispensabile. 

Spesso sento parlare di categorie in maniera astratta, sento dire: "gli infermieri" o "la sanità pubblica", e conseguentemente, in questi casi, ci si schiera sempre da una parte o dall'altra. Eroi o menefreghisti, funziona o non funziona. Dimentichiamo che alla base di tutto ci sono gli esseri umani. 

Li ho visti chiacchierare, in un momento di calma, ma li ho visti anche correre, veloci ed efficienti, all'arrivo di un ambulanza. E sentivo la frenesia, il suono dei macchinari con i loro bip acuti provenire dalla sala dei codici rossi. Io non so se vi è abbastanza chiaro, ma li dentro si salvano vite umane. 

Ho dormito a tratti, della notte mi è rimasto solo il ricordo di una infermiera che mi portava una copertina senza che gliel'avessi chiesta e l'orologio di un monitor che scandiva lento le ore.  

Alle cinque e trenta della mattina

Mi hanno fatto un nuovo prelievo: la situazione era migliorata. Mi hanno detto che sarei andato in reparto per monitorare il tutto, almeno fino a quando non mi fosse passata l'infezione. 

Mi hanno fatto il tampone, come da prassi di questi tempi, ed il resto della giornata è stato un'aspettare l'esito e il ricovero al reparto. Nel frattempo ho continuato la cura di antibiotico, ho usufruito di colazione e pranzo (pensavo peggio), e continuato ad osservare.

Un paziente anziano parla ad alta voce al telefono: "Me trattano bene! stamattina m'hanno portato la colazione, potevo pure sceglie, tè o latte, e le fette biscottate".

Altri due conversano di sintomi e di patologie, citando luminari ed elencando serie di ricoveri. 

Una vecchietta minuscola, coperta da una specie di copertina dorata che sembra l'incarto di un uovo di pasqua e fa il classico scricchiolio ad ogni movimento (ma che ci fa una cosa del genere in ospedale? devo chiedere), pronuncia di continuo frasi sconnesse e incomprensibili, dirette a chissà quale fantasma di un suo mondo immaginario. 

Un infermiere porta una bustina di plastica ad una signora dal peso importante, dentro c'è della pizza, da parte di sua figlia. La stessa signora dopo qualche ora chiede preoccupata se ci passano "il vitto".

E poi ogni tanto passano, in fretta, operatori nelle loro tute bianche protettive, con mascherine e visiere, che iniziano il loro turno nel reparto covid. 

L'esito del tampone

Verso le 18 arriva l'esito del mio tampone. Me lo comunica la dottoressa, è positivo. Rimango senza parole, non ho sintomi, non capisco. Sono smarrito ed un po' spaventato.

Di certo non posso stare lì e non possono mandarmi in reparto. Vengono due operatori con le loro tute bianche e le mascherine e le visiere e mi trasferiscono nell'altra ala del pronto soccorso. 

Ecco. 

Chi ha ancora dei dubbi o non crede all'emergenza, chi pensa a complotti o ad una informazione che ci vuole terrorizzare a proposito, dovrebbe passare qualche minuto qui.

Decine di letti, uno accanto all'altro, grida di dolore da più parti, lamenti e pianti. Molti sono attaccati all'ossigeno, e questa ovviamente non è la "terapia intensiva". 

E poi loro: infermieri, medici, operatori, che non so distinguere perché nelle loro tute bianche mi sembrano tutti uguali, che corrono a destra e a sinistra, veloci, essenziali.

Non voglio fare retorica, non voglio parlare di eroi e cadere nello stesso errore di cui parlavo prima: sono persone che fanno il loro lavoro, giusto. Ma un lavoro che io non avrei mai il coraggio di fare. Un lavoro che non può essere slegato dal concetto di "missione". 

Ho la fortuna di avere una sorella eccezionale che ha scelto di fare questo tanti anni fa, e so che nonostante la fatica, i turni di notte, lo stress (sommati all'avere una famiglia di cinque persone), non lo cambierebbe per nessuna ragione al mondo. 

Ho socchiuso gli occhi, cercando di guardare dentro di me per tenere un po' più distante quello che accadeva intorno. Non lo descriverò: perché non credo che io possa rendere sulla carta quello che ho provato in quel momento. 

Dopo qualche minuto una delle tute bianche si avvicina, è il medico. Ha la mia cartella, si informa sui miei sintomi. Se ho la possibilità di stare in isolamento a casa potrei continuare anche lì le mie cure.

Fisicamente mi sento bene, non ho più dolori dalla sera prima, non ho alcun sintomo a livello respiratorio. Non ho difficoltà a decidere. Dopo un ora sono fuori. 

Il ritorno a casa

Doppia mascherina, per me e mia moglie che mi è venuta a prendere, seduti distanti. Arrivo a casa, un saluto con lo sguardo ai miei figli (Grandone e Piccoletto, ve li ricordate?) e mi chiudo nella cameretta nella quale passerò i prossimi giorni.

Isolato dal resto della famiglia ma circondato dalle mie cose, con pc, tv, e una play che i miei figli mi hanno gentilmente prestato per passare queste giornate.

Continuo la mia cura e fortunatamente non ho avuto più dolori. Mi portano da mangiare fuori la porta e parliamo in videochiamata. Ci proteggiamo a vicenda.

Pensieri

La prima cosa che ho pensato quando sono entrato nel reparto covid è che fossi entrato in un girone dell'inferno. Senza giocarci tanto, è la prima immagine che mi è venuta in mente: dannati che si lamentavano nelle fiamme dell'inferno.

A ripensarci oggi mi rendo conto che non c'è immagine meno adatta. 

L'inferno evoca un qualcosa senza via di uscita, disperazione cieca.

Quello che ho visto è esattamente l'opposto: ho visto esseri umani prendersi cura di altri esseri umani, tra mille difficoltà, aiutandosi uno con l'altro, correndo, imprecando, magari anche sbuffando. 

Solo a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi e al tempo stesso provo un senso di frustrazione dato dalla consapevolezza di non riuscire a rendere quello che ho provato e sentito.

C'è speranza. Solo questo dico. C'è speranza. Fidatevi.


La Liggera



giovedì 22 ottobre 2020

Il punto della situazione e una clamorosa svolta

Ancora sul perché

Inutile nascondere che ho un momento di incertezza. Fino ad ora ho mantenuto
una certa regolarità ed ogni volta che ho pubblicato un articolo la voglia di scriverne subito un altro era tale che mi sembrava di poterne tirar fuori uno al giorno.

Eppure tutto questo tempo non ce l'ho. Se devo pensare al blog non posso pensare a disegnare, o a scrivere racconti, o a studiare storia (sono alcune delle mie passioni più grandi). E come faccio a pubblicare racconti se non ho il tempo per scriverli?

Su quale linea continuare? 

Per una mia scelta non sto condividendo i miei post neppure sul mio profilo Facebook, ho paura che se lo facessi perderei spontaneità. Saprei, nel momento stesso che sto scrivendo, che alcune determinate persone leggerebbero quello che ho scritto e finirei per non dire alcune cose,  non sarei me stesso, e cercherei di tener fede all'immagine che credo gli altri abbiano di me.

Un po' arzigogolato come pensiero ma spero si capisca.

Mi sembra anche chiaro come le visite e la condivisione di quello che scrivo sia, anche per questo, molto limitata. Mi limito ad inviare il link a qualche amico caro che mi conforta e mi spinge a continuare e poi ho cominciato a visitare e a commentare altri blog. Il che mi ha portato qualche visita e qualche complimento che ho apprezzato tantissimo.

C'è bisogno del mio blog? 

I miei quaranta lettori (di numero, non come i "venticinque lettori" del Manzoni) possono senza dubbio vivere lo stesso senza i miei articoli. 

Oggi tutti scrivono su Facebook, Instagram, Twitter, e via e via, urlando le proprie idee. Qualcuno lo fa meglio di altri, qualcun altro peggio, e spesso sono i secondi ad aver più successo. Non lo dico per fare polemica ma per dire che trovo alquanto inutile scrivere ciò che penso riguardo alle "mascherine", tanto per dirne una, o sul Mes.

Poniamo il caso che decidessi di fare una cosa del genere, e che condividessi il mio post ovunque. Molto probabilmente chi la pensa come me mi darebbe ragione, altri mi insulterebbero e nessuno cambierebbe idea. Qualcuno litigherebbe con un altro arrivando anche ad essere pesante e tutti rimarranno convinti di aver ragione. Quante volte vi siete trovati in una situazione simile? 

Ma allora a chi serve? 

Forse serve a me stesso, a chiarirmi le idee, a ragionare come sto facendo ora. Scrivere ha avuto sempre questo effetto su di me, mi aiuta a mettere ordine tra i pensieri. 

Ma questo potrei farlo anche senza pubblicare su un blog, anche scrivendo solo per me stesso. 

Allora mettiamoci anche una certa dose di narcisismo, o di presunzione, nell'idea che a qualcuno potrebbe piacere ciò che scrivi.

Magari, poi, hai anche qualcosa da dire, tra le righe, senza urlare, senza ridurre tutto al solito tifo da stadio. Forse nella tranquillità di un blog è possibile raccontare il proprio mondo, dire ciò che pensi con tranquillità.

Voglio fare questo: 

scrivere per me, pubblicare qualche mio racconto, scrivere di quel libro che mi è piaciuto, o di quella serie tv che mi ha fatto tornare a casa la sera con la voglia di vedermi un paio di puntate. 

Mostrare un disegno solo per sentirmi dire bravo, "hai fatto l'artistico?",  "hai seguito un corso?". Ma accetterei anche consigli da chi è più bravo di me, e di certo insulterei chi mi facesse critiche troppo pesanti per poi mettermi a piangere e abbandonare tutto! Un atteggiamento infantile, vero?

Voglio raccontare di me o di mio nonno, per leggere di qualcuno che si è commosso leggendo, magari ricordando il suo. O che ha riso per qualche stupidaggine che mi è uscita più o meno involontariamente. E insultando di nuovo chi dovesse esagerare nella critica, tanto lo so che è lo stesso del disegno e che di sicuro ce l'ha con me!

La clamorosa svolta

Come faccio spesso, sono partito da un punto, da una considerazione, e scrivendo sono andato a finire da un'altra parte.

Ha preso corpo un'idea che avevo in mente da un po' di tempo e ora la scrivo così non posso tornare indietro senza fare una figuraccia:

Avevo pensato di scrivere una sorta di romanzo di appendice, pubblicando una puntata alla volta, magari ogni quindici giorni.

Partendo da una idea, da un personaggio, o da una situazione, e lasciandolo andare per vedere dove va a parare. Non verrà fuori certo un capolavoro ma potrebbe essere un esercizio per me utile e divertente.

Potrei persino interagire con i quaranta lettori (ammesso che non fuggano), e creare la storia con loro.

Come dicevo prima, scrivendo l'idea sta prendendo corpo. 

Riepilogando:

Visto che dei 40 lettori uno dovrei essere io, altri dovrebbero essere capitati per caso, altri ancora avranno abbandonato alla seconda riga: i dodici che sono rimasti potrebbero scrivere nei commenti il nome di uno degli immaginari personaggi e il suo lavoro? Inventate, siate fantasiosi, o banali, non importa. Basta che scriviate un nome! E poi vediamo cosa esce fuori.

Considerazione finale

Avevo avanti due strade... sono andato per campi!

La Liggera



sabato 17 ottobre 2020

TRALUMMESCURO

BALLATA PER UN PAESE AL TRAMONTO

Tralummescuro” era dialetto, quando tutti parlavano dialetto, e lo traduci con “all’imbrunire”, ma senti che non è la stessa cosa[…] Tralummescuro è la luce, il chiarore (la lumme) che sta per diventare buio, la notte (lo scuro) e di notte, alora, era scuro davera 

Ho chiuso ieri l’ultima pagina di questo romanzo di Francesco Guccini,  Tralummescuro, ballata per un paese al tramonto 

Per me, che ho sempre amato Guccini, non è stata una sorpresa il piacere che ho provato nel leggerlo: è un romanzo che fa sorridere, che a tratti commuove, che ti trasporta in un tempo che non c’è più. Finalista dell'ultimo premio Campiello, apprezzato dalla critica e dai comuni lettori, che forse comuni non sono mai.

L’ho letto lentamente,

a piccole dosi, come se stessi ascoltando un paio di sue canzoni, non di più. Centellinandone la lettura, per far sì che non finisse troppo presto e per coglierne tutta la dolcezza malinconica, senza correre il rischio che mi stancasse. Un po’ come quando rubi due cucchiaini di nutella dalla dispensa: ci faresti il bagno, ti ci affogheresti, ma ti limiti perché sai che potrebbe farti male e poi se esageri perderebbe anche il gusto. 

Ecco quindi che, un capitolo alla volta, o anche solo poche pagine, ascolti il vecchio Francesco parlare della sua Pavana, dell’estate, degli animali, del fiume, del mulino e via andare (per usare una sua espressione).

Lo ascolti perché, almeno per me, è stato impossibile leggerlo senza sentire la sua voce ascoltata in tanti concerti, tra una canzone e l’altra. Solo un po’ più stanca, perché lo hai visto, in recenti interviste, e ti fa un po’ strano vedere come il tempo passi inesorabile.

Non ho gli anni di Guccini,

ma passavo le estati in montagna, in Abruzzo, da bambino, anni Settanta-Ottanta. Sembra passato un secolo e quasi mi spaventa pensare che quegli anni siano più vicini agli anni Cinquanta di cui si narra che al nostro Duemilaventi. 

Non è passato un secolo dalla mia “fanciullezza” ma quasi mezzo sì, cacchio! E per questo, età e ambientazione, ho sentito questo libro molto vicino, ho provato anch’io un po' di quella malinconia.

Che non è nostalgia: lo ha detto anche lui in una intervista, che a quei tempi si stava peggio, e non siamo onesti con noi stessi quando diciamo il contrario.

‘Na volta, d’inverno, be’, ti lavavi il giusto. Quando proprio cominciavi a fètere di rumadgo c’era la complessa operazione del bagno. Già dovevi cambiarti la maglia, il ché poteva essere doloroso perché la maglia di lana di peggora, fatta a mano coi ferri da solerti antenate, bucava e provocava rose (“spiura” nella città della Motta, “scadore” a Cittanova, te che sai le lingue) ed eritemi difficilmente sopportabili, verodio, dopo quel po’ che la portavi l’avevi domata ma dovevi ricominciare da zero”

Ho aperto una pagina a caso, per davvero, e ne ho copiato una parte, eppure, anche in queste poche righe c’è tutta l’atmosfera del libro : l’ironia, la nostalgia, il tono e il linguaggio. (non mi viene di chiamarlo romanzo, forse dovrei chiamarla appunto “ballata”, come suggerisce, d’altra parte, il titolo stesso)

Il dialetto

non è mai buttato lì a caso, c’è una ricerca filologica, un’attenzione all’etimologia della parola, alla sua derivazione, se più toscana o emiliana. Guccini è uno che studia e che sa come spiegarti le cose. A poche persone come a lui si addice il termine Maestro. Non a caso in appendice trovate un dizionario: "Voci del testo chiarite al popolo". Anche questo gustoso, da spulciare, redatto con la consueta ironia. Un esempio:

pinzare: pungere d'insetti. Da ragazzi per l'autore era normale essere pinzati almeno tre o quattro volte da una maledetta vrespa (vedi). Toscanismo

Note di Viaggio volume 2

In questi giorni è uscito “Note di Viaggio capitolo 2”. Una raccolta di sue canzoni scelte da Mauro Pagani e assegnate a grandi interpreti e cantautori, un omaggio a Francesco Guccini che segue a distanza di un anno il primo volume, chiamato “astutamente” (direbbe lui) Note di viaggio capitolo 1. 

Bellissime anche le interviste con i vari interpreti (Mannoia, Mahmood, Levante, Zucchero, Capossela ecc), andatele a vedere se ve le siete perse.

Insomma, ho riascoltato per caso “Culodritto”, reinterpretata da Levante, e ad un tratto penso di aver capito il tipo di sentimento che pervade “Tralummescuro”: non una nostalgia per i tempi andati, non un semplicistico "si stava meglio quando si stava peggio", piuttosto, semplicemente, il ricordo di una società che non c'è più e soprattutto di un'età, quella dei bambini che hanno "tutto ancora da sbagliare".

Leggete il testo della canzone

“Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti

e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti,

ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare

e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare...” 


C'è da aggiungere altro?

Voi lo avete già letto? o vi ho fatto passare la voglia?

Liggera


Nona puntata

     La nona puntata è arrivata. Continuiamo a studiare a leggere e a scrivere. Stephen King ha scritto da qualche parte che se scrivi un...